L’emergere, nel contesto di un’economia divenuta globale, di una tendenza da riorganizzazione del sistema produttivo orientata a marcate forme di decentramento, cui corrisponde il sostegno legislativo alla flessibilità del lavoro con la conseguente moltiplicazione dei moduli collaborativi, ha determinato una maggiore apertura del sistema alle soluzioni concordate della crisi d’impresa volte ad agevolare interventi in prevenzione rispetto all’irreversibilità della crisi, utili alla conservazione del complesso aziendale e, conseguentemente, dei livelli occupazionali.
Si registra l’emersione di una nuova concezione della fase di liquidazione, fino a questo momento caratterizzata da una finalità necessariamente essenzialmente liquidatoria dell’impresa insolvente da una tutela accentuata dei diritti dei creditori, determinando un completo spossessamento del patrimonio del debitore, che veniva posto in una condizione di assoluta incapacità di disporre, anche con effetti extra concorsuali e di tipo personale, del proprio patrimonio.
In questo quadro la finalità recuperatoria del patrimonio imprenditoriale aveva finito per trovare l’incontestabile collocazione secondaria rispetto allo scopo sanzionatorio del fallimento.
Si trattava di una finalità non più adeguata agli obiettivi che, in relazione all’evoluzione socioeconomica, sono da perseguire nelle situazioni di insolvenza imprenditoriale, volti alla valorizzazione della dimensione dinamica dei beni oggetto della massa attiva da liquidare ed alla loro considerazione in blocco, con particolare riferimento alla stessa azienda, così da prospettare la necessità di una fase gestionale quale parte integrante del procedimento liquidatorio.
In merito alle novità che emergono nel nuovo Codice della Crisi e dell’Insolvenza (d’ora in avanti CCI), dal punto di vista giuslavorista, appare interessante evidenziare come venga in qualche modo cristallizzata l’importanza del concetto di lavoro assiologico/valoriale di un interesse che non è soltanto quello solito della tutela del lavoro, della tutela delle condizioni di chi lavora, della protezione, dello statuto protettivo del lavoratore, e non è neanche quello tradizionalmente contrapposto della tutela delle imprese e, quindi, del mercato e dei creditori.
Ma piuttosto emerge una sorta di tutela dei crediti occupazionali in maniera sempre più prepotente come valore, come assetto di interessi, che in qualche modo si contrappone e limita sia la tutela del lavoro, inteso come statuto protettivo di chi ha un lavoro, sia ovviamente l’impresa.
Soffermandosi sulle novità di questo decreto, per meglio comprendere ovviamente cosa innova, non si può prescindere da un discorso sulla legge fallimentare e su come la legge fallimentare sia stata carente in tutti questi anni in una disciplina di regolazione degli effetti appunto del fallimento sui rapporti di lavoro pendenti; un vulnus, se vogliamo, che di fatto ha alimentato anche grandi incertezze nella prassi e, non avendo una disciplina espressa, si è dibattuto a lungo nel diritto del lavoro sulla possibilità di un bivio tra l’applicazione stentorea dello statuto protettivo di chi lavora, piuttosto che l’ingresso nella difficoltosa area della deroga a vita; cioè la crisi come fattore di deroga dello statuto protettivo.
Questo, tuttavia, non è un elemento indolore della materia, che si è spaccata tra una dottrina la quale appunto ha ritenuto con ragion pratica di poter derogare a questo livello di protezione, che ha un elemento forte nella costituzione in cui è assolutamente inderogabile ed è segnato come tale nel momento della crisi dell’impresa e autori che, invece, ritengono applicabile comunque lo statuto protettivo di chi lavora; una spaccatura ideologica/ideale certamente tra due visioni del diritto del lavoro.
Rispetto a questa divisione si è posta, poi, la giurisprudenza; pertanto ci sono state sentenze che nel tempo hanno sostenuto l’una e l’altra posizione; esito anche fisiologicamente importato dalla mancanza di una disciplina nella legge fallimentare per quel che riguarda i rapporti di lavoro.
Questo lo vediamo in tutti gli snodi essenziali.
Lo vediamo quando si parla di sospensione, quando si parla di licenziamento, oggi anche di recesso, lo vediamo quando si parla di licenziamenti collettivi, di vicende circolatorie dell’azienda; in tutti questi snodi il tema è sempre poi riconducibile a questo problema; possiamo ammettere una protezione a ribasso di questi lavoratori per effetto della crisi.
Il classico tema su cui questo ragionamento si deve imbattere inizialmente è proprio quello della sospensione.
Certamente la questione relativa alla gestione dei rapporti di lavoro nella crisi d’impresa non può essere analizzata da un’unica prospettiva, in quanto, vigente la legge fallimentare, diverse sono le conseguenze a seconda che sia stato già dichiarato o meno lo stato di insolvenza dell’imprenditore.
Occorre, infatti, approcciarsi diversamente alla questione in quanto qualora il giudice si limiti a dichiarare il fallimento dell’imprenditore, i rapporti di lavoro ancora pendenti dovranno essere gestiti in un’ottica prevalentemente improntata alla risoluzione.
Mentre, se oltre all’accertamento dello stato di insolvenza il giudice dispone anche circa la prosecuzione dell’attività dell’impresa, la disciplina sarà diversa a seconda che si proceda con l’esercizio provvisorio o con l’affitto di azienda o di rami della stessa.
La questione è stata oggetto di annoso dibattito tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, incentrandosi il contrasto sul riferimento prioritario riconosciuto all’unica disposizione a riguardo presente nell’ordinamento, tutta di matrice giuslavorista, ovvero l’art. 2119 c.c., che disciplina il recesso per giusta causa del contratto di lavoro e prevede espressamente che “non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento dell’imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa”, rispetto al rilievo attribuito al dato per cui della legge fallimentare non vi è alcun riferimento, espresso o tacito, agli effetti della dichiarazione dello stato di insolvenza sui rapporti di lavoro subordinato che siano ancora in corso al momento della dichiarazione di fallimento dell’imprenditore.
L’assenza di una specifica disposizione che regolasse la sorte del contratto di lavoro subordinato, lasciava ancora irrisolta, secondo la dottrina, la questione dell’applicabilità della regola della sospensione; ciò, a maggior ragione, se si considera che neppure di ausilio risultava il ricorso all’art. 2119 c.c., il quale si limita unicamente ad escludere che il fallimento dell’imprenditore costituisca giusta causa di risoluzione del contratto, così assicurando al lavoratore, ferma quella di fine rapporto, l’indennità sostitutiva del preavviso.
Diversamente opinando, più coerente al sistema delineatosi con la riforma, appare la tesi secondo cui al rapporto di lavoro subordinato va senz’altro applicata la regola generale di cui all’art. 72; ne deriva che, a seguito della sentenza di fallimento, il contratto de quo resta temporaneamente sospeso con conseguente stato di quiescenza dei diritti e degli obblighi reciproci (prestazione/retribuzione) fintanto che il curatore non abbia scelto se subentrare o sciogliere il contratto.
Inoltre, la quiescenza attiva del rapporto, in caso di mancata ripresa del lavoro, assicura al lavoratore dipendente la possibilità di accedere ad una serie di benefici previdenziali quali la corresponsione delle indennità di cassa integrazione, di disoccupazione e di mobilità.
Era quindi necessario accertare se, fino a quando non fosse intervenuta la decisione del curatore, le obbligazioni in capo alle parti (la prestazione lavorativa e la retribuzione) rimanessero sospese, e se il curatore fosse riconosciuto o meno la facoltà di recedere in ogni momento, senza i limiti che derivavano dalle regole a riguardo poste dal diritto del lavoro.
Due gli orientamenti che si fronteggiavano.
Un primo orientamento era teso a contemperare la regola posta nell’ambito della riforma della legge fallimentare con i principi desumibili dal diritto del lavoro, così giungendo a sostenere l’illegittimità dell’accesso che avesse trovato causa nel fallimento in sé e la sopravvivenza dei rapporti di lavoro, destinati a restare sospesi fino a quando il curatore non avesse deciso in ordine al subentro o meno nei rapporti medesimi, da cui avrebbe potuto comunque sciogliersi successivamente ma con il rispetto della disciplina in tema di licenziamenti individuali collettivi.
Da ciò, la medesima dottrina derivava il corollario per cui determinando il periodo di sospensione lo stato di quiescenza delle obbligazioni corrispettive, alla mancata esecuzione della prestazione lavorativa avrebbe corrisposto l’esonero del datore di lavoro dalla controprestazione retributiva, effetto che sarebbe conseguito dallo stesso art. 72, l. fall., letto come destinato a regolare le conseguenze economiche della sospensione in termini tali impedire che, a fronte di una prestazione non resa, il lavoratore, per quanto ancora in forza per effetto della prosecuzione del rapporto, potesse vantare una pretesa creditoria nei confronti della procedura.
Un secondo orientamento, invece, ritiene perfettamente applicabile la disciplina fallimentare, quindi la sospensione sia dell’obbligazione della retribuzione, sia della libertà di recesso del curatore.
L’applicabilità ai rapporti di lavoro dell’art. 72 l. fall., è stata sostenuta anche sulla base di un argomento letterale desumibile dal comma 1 della norma in questione che ne sancisce l’operatività “fatte salve le divere disposizioni contenute nella medesima sezione”, condizione ostativa che non ricorre nel caso dei rapporti di lavoro dal momento che nella sezione non vi sono disposizioni ad hoc per i rapporti di lavoro.
A tale argomentazione, tuttavia si è opposto, facendo leva sul principio di specialità, operante anche nel caso in cui la legge speciale sia cronologicamente anteriore alla legge generale, che la legge fallimentare, fa riguardarsi quale contesto normativo recante la regola generale in materia di efficacia dei rapporti pendenti nei confronti di imprese soggette a procedure concorsuali possa subire deroghe per effetto del disposto di norme che afferendo alla medesima materia, ma con specifico riguardo ai rapporti di lavoro e dettando per questi una regola difforme da quella generale posta dalla legge fallimentare, debbano qualificarsi rispetto a quella appunto come norme speciali.
A lungo si è dibattuto, dunque, se la legge fallimentare, con la norma contenuta nell’art. 72, potesse consentire una sospensione automatica anche dei rapporti di lavoro.
Giurisprudenza anche autorevole ha negato questo su un ragionamento, un impianto sistematico che faceva leva appunto sullo statuto protettivo inderogabile di chi lavora, anche perché effettivamente ci sono conseguenze importanti che inevitabilmente seguono alla sospensione del rapporto di lavoro (sospensione della retribuzione, sospensione della contribuzione in una condizione di quiescenza nella quale il lavoratore non accede a un indennizzo di disoccupazione perché il rapporto è ancora in essere per quanto quiescente).
Quindi motivi, esigenze di protezione urgenti che reclamavano una tutela da parte dei giudici.
Anche dottrina autorevole (Tosi) si è schierata in questo senso, sostanzialmente sostenendo che nel diritto del lavoro non è pensabile una sospensione del rapporto per esigenze dovute e riconducibili all’imprenditore, perché salvo che sia previsto dalla legge questo è una distonia troppo rilevante, ammessa soltanto in favore del lavoratore in casi di malattia e in casi che tutti noi conosciamo.
Di qui altri autori, supportati da alcune pronunce giurisprudenziali, hanno sostenuto che la sospensione si applichi soltanto quale ammortizzatore sociale, limitatamente ai casi di non applicabilità della CIGS, laddove il campo di applicazione non lo consenta.
Allora relativamente alle procedure concorsuali possiamo ragionare in termini di sospensione automatica; diversamente, occorre passare per la sospensione tramite il CIGS che tutela e protegge il lavoratore.
In riferimento alla posizione del curatore, dunque, nel regime di sospensione del rapporto di lavoro pendente, per effetto della dichiarazione di fallimento (art. 72 l. fall., ma in prospettiva: art. 189 CCII), la specialità della Cassa integrazione in deroga (introdotta dall’art. 22 d.l. n. 18/2020 ) ne consente, secondo l’indicazione della circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali 8 aprile 2020, il riconoscimento “anche in favore di lavoratori che siano tuttora alle dipendenze di imprese fallite, benché sospesi”.
Di qui tutto un orientamento dottrinale che ha visto, per esempio, la chiamata in causa per responsabilità dei curatori che non si attivavano per chiedere la CIGS, così cagionando un danno ai lavoratori chiamati, quindi, a risarcire rispondendo personalmente.
Questo assetto cambia dopo l’art. 189 del CCI.