Studio Alma Rinaldi

 

La nozione di azienda, già indicata codicisticamente come “il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per esercizio dell’impresa” (art. 2555 c.c.), é stata emancipata da tale definizione, delineandone una propria ai fini dell’applicabilità della disciplina sulla sua circolazione, unitamente ad una estesa nozione di “trasferimento”

Abbandonando il richiamo di nozione di azienda di cui all’art. 2555, è del tutto evidente che già con le modifiche apportate al comma 5 dell’art. 2112, c.c., D.Lgs. 18/2001, si accoglie una nozione semplicistica di “azienda” contenente l’operatività della tutela lavoristica nel trasferimento d’azienda anche nei trasferimenti di attività non più identificata solo come “complesso di beni”, ma anche di quell’attività dove i beni materiali rappresentano una piccola componente rispetto all’attività economica organizzata, consentendo ugualmente l’inizio o la prosecuzione dell’esercizio imprenditoriale.

Una certa elasticità nella nozione di trasferimento di azienda, si ritrova anche nelle Direttive CEE (187/1977 – 50/1998) che hanno ispirato il D.Lgs. 18/2001, nelle quali i giudici comunitari hanno osservato come primario obiettivo la protezione del lavoro attraverso un ampliamento delle tutele lavoristiche.

Il concetto di trasferimento di ramo di azienda si basa, poi, sulla verifica dell’autonomia funzionale dell’articolazione di impresa oggetto di cessione.

Secondo i giudici di legittimità l’articolazione da trasferire deve presentarsi come una sorta di piccola azienda che possa funzionare in modo autonomo al fine della produzione di beni o servizi, in grado di realizzare autonomamente, con propria organizzazione, una fase della produzione aziendale, accessoria o strumentale a quella finale.

Il citato comma 5 dell’art. 2112, c.c., precisa che “le tutele giuslavoristiche si applicano a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base dei quali il trasferimento è attuato” comprendendo quindi non solo i casi di vendita, affitto e usufrutto di azienda, ma anche tutti quelli in cui si verifica la sostituzione della persona del titolare.

Il mutamento del titolare deve in questo caso lasciare immutata la struttura del complesso aziendale trasferito di modo che i beni trasferiti rendano possibile lo svolgimento di una specifica impresa.

Si ha trasferimento di azienda in tutti casi in cui, ferma restando l’organizzazione del complesso dei beni destinati all’esercizio dell’attività economica, ne muta il titolare in virtù di una vicenda giuridica riconducibile al fenomeno della successione in senso ampio.

La disciplina ex art. 2112 c.c. mira ad assicurare l’indifferenza delle vicende soggettive dell’impresa per i rapporti lavorativi attraverso i seguenti piani di tutela: la conservazione dei diritti, in particolare dei crediti, verso cui cedente e cessionario sono obbligati in solido; la conservazione del trattamento da contratto collettivo (applicazione dei contratti collettivi nazionali, territoriali e aziendali vigenti al momento del trasferimento fino alla loro scadenza, ovvero di contratti collettivi del medesimo livello applicabili all’impresa del cessionario); diritto alla prosecuzione del rapporto con il concessionario e divieto di licenziamento per effetto del trasferimento; diritto alle dimissioni per giusta causa per il lavoratore le cui condizioni di lavoro subiscano una sostanziale modifica nei tre mesi successivi al trasferimento.

Nel corso degli anni si è realizzato, sia per via legislativa che attraverso l’elaborazione giurisprudenziale interna della Corte di Giustizia UE, un progressivo cambiamento della protezione dei lavoratori, non soltanto attraverso la creazione di nuovi diritti, ma anche attraverso l’ampliamento del perimetro delle categorie alle quali applicare le tutele prima richiamate.

È da sottolineare come la disciplina di cui all’art. 2112 c.c. manifesti lo scopo di protezione degli interessi dei lavoratori, volte a garantire anche il soddisfacimento di alcuni rilevanti interessi imprenditoriali come la valorizzazione del complesso organizzato dal cedente, e l’acquisizione di una unità funzionalmente autonoma per il cessionario, e può allo stesso tempo impedire che nelle vicende circolatorie dell’impresa i suoi fattori produttivi siano dissipati.

Se l’originaria formulazione della norma del 2112 c.c. contemplava nella sua ratio, le esigenze di alienante e acquirente, queste sono state definitivamente soppiantate da quella di garantire, in primis, l’interesse alla continuazione del rapporto di lavoro, quindi alla continuità dell’occupazione, in un rinnovato contesto ordinamentale ispirato alla maggior tutela della posizione del lavoratore nelle vicende circolatorie dell’impresa, soprattutto a seguito del mutato quadro normativo europeo che ha dato origine alle profonde modifiche introdotte nell’ordinamento italiano.

La disciplina del trasferimento d’azienda non è più vista dal legislatore comunitario unicamente come lo strumento per favorire la circolazione e l’allocazione delle risorse: il diritto del lavoro, da competenza “di sostegno” nell’ordinamento dell’Unione Europea, ha assunto una rilevanza immediata nella creazione del mercato che non può prescindere dal miglioramento delle condizioni dei lavoratori e dall’armonizzazione della loro tutela e, in modo speculare, dalla responsabilità degli operatori economici per gli obblighi dei loro confronti collegati al trasferimento.

L’ambito di operatività delle deroghe nel Codice delle Crisi

Nell’ottica di un superamento delle criticità applicative storicamente connesse alla disciplina del trasferimento di azienda in crisi, il Codice della Crisi (d’ora in avanti: CCII) introduce un triplice apparato derogatorio all’art. 2112 c.c.

Il primo viene dedicato alle procedure non liquidatorie (finalizzate ad assicurare la prosecuzione dell’impresa); il secondo, in generale, alle ipotesi di procedure liquidatorie (che servono unicamente a massimizzare la soddisfazione collettiva dei creditori) diverse dall’amministrazione straordinaria; il terzo esclusivamente all’amministrazione straordinaria nel caso in cui l’attività non sia stata disposta o sia cessata.

L’art. 47 l.n. 428/1990 con la previsione della procedura di informazione e consultazione sindacale e la disciplina del trasferimento dell’azienda in crisi va ad integrare la disciplina prevista dall’art. 2112 c.c., con particolare riferimento alla possibilità di introdurre modificazioni peggiorative del trattamento dei lavoratori in deroga alla norma del 2112 c.c.

E allo scopo di salvaguardare in parte i livelli occupazionali la materia del trasferimento dell’azienda in crisi è stata oggetto di modifiche legislative, resesi necessarie anche in conseguenza di statuizione della Corte di giustizia dell’Unione Europea chiamata ad accertare l’incompatibilità dell’art. 47, comma 5 vecchia formulazione con il diritto dell’Unione.

La norma è stata recentemente interessata da modifiche da parte del CCII chiamato a sostituire i commi 4-bis e 5, aggiungendo i commi 1-bis, 5-bis e 5-ter e modificando il comma 6, che hanno eliminato i profili problematici nell’interpretazione della norma, esistenti anche dopo le modifiche del 2009, riconducendola più chiaramente al quadro delineato dalla Direttiva Europea 2001/23/CE.

É necessario delimitare la portata della deroga concessa dal CCII all’art. 2112 c.c.

Il nuovo comma 4 bis dell’art. 47 della legge n. 428/1990 sancisce espressamente il trasferimento al cessionario dei rapporti di lavoro, mentre permette solo una modifica alle condizioni di lavoro, nei termini e con le limitazioni previste dall’accordo collettivo.

Ciò vuol dire che l’accordo potrebbe stabilire qualsiasi deroga al trattamento collettivo riconosciuto ai lavoratori (livello di inquadramento, orario, retribuzione – entro il limite dettato generalmente dall’art. 36 Cost. – etc.), senza dover rispettare alcuna delle limitazioni previste dall’art. 2112, comma 3, c.c., in particolare, senza che l’effetto di sostituzione debba prodursi necessariamente fra contratti collettivi del medesimo livello (art. 2112, comma 3, ultimo periodo).

Stante l’assenza di un’espressa previsione, invece, tale accordo sembra non poter procedere a derogare le condizioni di lavoro di fonte legale; salvo che l’intesa possegga anche tutti i requisiti stabiliti dall’art. 8, D.L. n. 138/2011, conv. con mod. in legge n. 148/2011, in tal caso potendo, con ogni evidenza, prevedere deroghe anche alle norme di legge.

Una simile interpretazione pare inoltre conforme al dettato dell’art. 5, par. 2, lett. b), Direttiva n. 23/2001, secondo cui le parti possono sì convenire modifiche delle condizioni di lavoro, ma solo nella misura in cui la legislazione o le prassi in vigore nel Paese membro lo consentano.

Ed è noto che la legislazione italiana, al di fuori di ipotesi specifiche (come quella prevista dal richiamato art. 8), non riconosce alla contrattazione collettiva potere derogatorio rispetto alle norme di legge.

A seguito della riscrittura del comma 4 bis dell’art. 47, nel quale peraltro è stato eliso il riferimento al “mantenimento anche parziale dell’occupazione”, non vi è più spazio per letture volte a ritenere derogabile il principio di continuità del rapporto.

Al contempo, non si scorgono letture volte ad ammettere deroghe al principio di responsabilità solidale tra cedente e cessionario per i crediti dei lavoratori esistenti all’atto del trasferimento.

L’art. 3, par. 3 della direttiva adotta infatti l’espressione “condizioni di lavoro” per stabilire la disciplina collettiva applicabile in caso di trasferimento.

Parimenti identifica quel complesso di elementi del rapporto la cui modificazione sostanziale può giustificare le dimissioni per giusta causa, ai sensi dell’art. 4, par. 2.

Ciò dimostra che un conto è il principio di responsabilità solidale, disciplinato dall’art. 3, par. 1 della direttiva e trasposto nell’art. 2112, comma 2, c.c., altro sono le condizioni di lavoro menzionate nell’art. 3, par. 3 e nell’art. 4, par. 2, così come trasposte nell’art. 2112, commi 3 e 4, c.c.

Stando all’art. 3, parr. 1 e 2, della direttiva, la responsabilità del cedente è infatti facoltativa, la responsabilità del cessionario no, almeno in assenza di una protezione equivalente (v. art. 5, par. 2, lett. a).

Peraltro, secondo la Corte di Giustizia, tra le “modifiche delle condizioni di lavoro” non è inclusa nemmeno la facoltà di limitare il periodo annuale di salvaguardia del trattamento collettivo praticato dal cedente, a meno che non si verifichi una delle situazioni indicate nello stesso art. 3, par. 3, ossia la risoluzione o la scadenza del contratto collettivo applicabile al cedente ovvero l’applicazione di un altro contratto collettivo da parte del cessionario.

Una volta chiarito il significato dell’inciso relativo alle condizioni di lavoro, può affermarsi che il nuovo comma 4 bis dell’art. 47 non presenta più alcun problema di conformità al diritto euro-unitario.

Il nuovo comma 5 dell’art. 47 fa inoltre salva la possibilità di stipulare accordi individuali, anche in caso di esodo incentivato dal rapporto di lavoro, da sottoscriversi nelle sedi di cui all’art. 2113, ultimo comma, c.c.

La congiunzione “anche” assume ancora una volta valore meramente esemplificativo, esprimendo semplicemente una delle possibili opzioni: l’accordo individuale può (ma non deve obbligatoriamente) intervenire in caso di esodo incentivato.

La previsione intende semplicemente precisare che il diritto alla continuità del rapporto, già entrato nel patrimonio del lavoratore, può essere oggetto di atti di disposizione dell’autonomia individuale.

Questa interpretazione non pare l’unica percorribile.

L’espressione è infatti inserita nel periodo dedicato all’accordo collettivo derogatorio che, come noto, interviene prima del trasferimento di azienda, e ciò aiuta a ritenere che non si tratti di un atto dispositivo di un diritto già entrato nel patrimonio del lavoratore.

Potrebbe quindi significare altro, ossia che l’autonomia individuale può derogare – in sede protetta – al principio di continuità, al trattamento collettivo e al divieto di licenziamento in ragione del trasferimento.

Del resto, la fonte europea, in ipotesi di procedure liquidatorie, non richiede che la deroga operi necessariamente a fronte di un accordo collettivo.

E questo spiegherebbe perché la previsione è stata inserita nel comma 5 (dedicato alle procedure liquidatorie) e non anche nel comma 4 bis (relativo alle procedure non liquidatorie).

In conclusione, può affermarsi che, entro tale cornice normativa, nelle sedi protette non viene svolta una funzione conciliativa, non essendovi alcuna rinuncia o transazione, ma viene svolta una funzione di assistenza all’esercizio dell’autonomia privata, ossia un’assistenza alla derogabilità all’art. 2112 c.c. (c.d. deroga assistita).

In tali sedi verrà pertanto verificato che il consenso non sia viziato e che sussistano le condizioni di operatività della disposizione, ergo che l’accordo intervenga nell’ambito di procedure liquidatorie.

Ulteriori deroghe alla disciplina di cui all’art. 2112 c.c. sono previste dagli artt. 104 bis e 105 l. fall. divenuti artt. 212 e 214 del CCII sull’affitto e vendita di rami dell’azienda, e degli artt. 56 e 63 del d. lgs. n. 270/1999 sull’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza.

Nella prima ipotesi, quando si sia accertata in giudizio la mancanza dei requisiti richiesti dall’art. 2112 (ad esempio quando vi sia stata una cessione di assets che non costituisce un ramo di azienda), ove manchi il consenso del lavoratore ai fini dell’applicabilità della norma del 1406 c.c. (Cessione del contratto individuale), il rapporto di lavoro si considera rimasto nella titolarità del cedente, dunque mai trasferito.