Idoneità della prosecuzione del rapporto di lavoro in caso di trasferimento illegittimo d’azienda
Davanti alla fattispecie del trasferimento di azienda, più frequentemente di un suo ramo, possono presentarsi due tipi di interessi dai quali derivano domande diametralmente opposte da parte di lavoratori: l’interesse ad impugnare il trasferimento e a farne valere la nullità poiché il lavoratore trasferito ritiene di avere diritto a continuare il proprio rapporto con il cedente, o l’interesse all’accertamento della prosecuzione del rapporto alle dipendenze del cessionario per effetto della norma del 2112, poiché il lavoratore ritiene di essere stato ingiustamente escluso dal compendio ceduto.
La nullità del trasferimento del ramo d’azienda non esclude, di per sé, che la cessione del rapporto di lavoro si sia perfezionata ai sensi dell’art. 1406 anche mediante prestazione tacita del consenso mediante comportamenti concludenti.
Una recente giurisprudenza (Cass. n. 4870 del 24 -02- 2020), ha confermato la decisione con cui il giudice di merito aveva ritenuto sussistente una manifestazione tacita di consenso da parte del lavoratore alla cessione del contratto ai sensi dell’art. 1406 c.c., posto che il rapporto era continuato senza alcuna contestazione alle dipendenze della società cessionaria per oltre nove anni.
Tutto ciò presuppone che il trasferimento di azienda sia stato tempestivamente impugnato; in virtù dell’art. 32 della L. n. 180/2010, alla “cessione di contratto di lavoro avvenuta ai sensi dell’art. 2112 c.c. con termine decorrente dalla data del trasferimento” si applicano i medesimi termini di impugnativa giudiziale e stragiudiziale previsti per il licenziamento quindi, ipotesi in cui il lavoratore intende opporsi al trasferimento di azienda, e dunque il passaggio del proprio rapporto alle dipendenze del cessionario, è l’unica contemplata dalla lett. c dell’art. 32, mentre non vi è alcun termine decadenziale nel caso in cui il lavoratore intenda avvalersi dell’avvenuto trasferimento chiedendo l’accertamento della prosecuzione del rapporto.
L’invalidità della vicenda traslativa comporta, quindi, inevitabilmente l’inapplicabilità della norma del 2112 e l’accertamento della continuità del rapporto alle dipendenze dell’alienante.
Questo a prescindere dall’eventuale risoluzione intervenuta con il cessionario: il rapporto con quest’ultimo è instaurato in via di mero fatto, e le vicende risolutive dello stesso non sono idonee ad incidere sul rapporto giuridico ancora in essere rimasto in vita con il cedente sebbene quiescente per l’illegittima cessione fino alla declaratoria giudiziale.
Peraltro, nel giudizio intentato dal lavoratore nei confronti del cedente teso a rivendicare la continuazione del rapporto a seguito dell’accertamento della inconfigurabilità del trasferimento d’azienda, non vi è litisconsorzio necessario per il cessionario, perché il lavoratore non deduce in giudizio rapporto plurisoggettivo non è una situazione di contitolarità, ma tende a conseguire un’utilità rivolgendosi a un solo soggetto, ovvero quello che reputa essere il vero e unico datore di lavoro.
Accertata la prosecuzione del rapporto con il cedente, occorre chiedersi che tipo di tutela spetti al lavoratore che abbia messo a disposizione le proprie energie lavorative successivamente alla pronuncia, a fronte del rifiuto ingiustificato dell’alienante alla controprestazione.
Per molto tempo, a riguardo, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che in questo caso il lavoratore avrebbe avuto diritto al risarcimento del danno, in linea con il principio secondo cui il contratto di lavoro è un contratto a prestazioni corrispettive in cui l’erogazione nel trattamento economico, in mancanza di lavoro, costituisce un’eccezione, che deve essere oggetto di un’espressa previsione di legge o di contratto.
Il difetto di un’espressa previsione in questo senso, la mancanza della prestazione lavorativa, escluderebbe il diritto alla retribuzione, ma determinerebbe, a carico del datore di lavoro che ne è responsabile, l’obbligo di risarcire i danni eventualmente commisurati alle mancate retribuzioni.
Questo tenendo conto che l’unicità del rapporto di lavoro non verrebbe intaccata dal subentro di un diverso soggetto nella titolarità dal lato datoriale, seppure di fatto.
L’orientamento della Cassazione favorevole alla produzione dell’effetto della doppia retribuzione nei casi di trasferimento illegittimo ha conosciuto, dopo il primo arresto del 2019, un progressivo consolidamento nella giurisprudenza di legittimità.
Nonostante ciò, a partire dal 2020 si sono distinte alcune sentenze di merito che, con argomentazioni diverse, hanno proposto soluzioni in grado di evitare il “raddoppio” dell’adempimento retributivo.
Una prima decisione ha affermato che il diritto del lavoratore alla retribuzione sorgerebbe nei confronti del creditore moroso non già, come ritiene la Suprema Corte, perché la prestazione è stata giuridicamente resa nei suoi confronti, ma quale effetto legale della mora accipiendi, che se da un lato lascia intatto l’obbligo retributivo in capo al creditore, dall’altro però non consente la duplicazione della prestazione dovuta.
Se il lavoratore ha nel mentre lavorato per il cessionario, dunque, tale prestazione resta unica, mentre a duplicarsi sono solo le fonti giuridiche della controprestazione retributiva: per il cedente, infatti, l’obbligo retributivo deriva dalla mora, mentre per il cessionario esso promana dalla prestazione effettivamente eseguita.
Tali obbligazioni, in quanto vincolate da un oggetto comune, sarebbero in una relazione di solidarietà passiva tra loro, fondata appunto sull’idem debitum, con la conseguenza che l’adempimento del cessionario co-obbligato in solido libererebbe il co-obbligato cedente, senza alcun effetto di doppia retribuzione.
La tesi della prestazione unica è stata ripresa anche da una successiva sentenza di merito la quale ha confermato “l’identità contenutistica della prestazione artificiosamente scissa in reale, di fatto, e giuridica, virtuale”, ed escluso la doppia retribuzione in favore del lavoratore.
Si afferma, infatti, che nel caso del trasferimento d’azienda dichiarato illegittimo si è dinanzi ad «un lavoratore che presta comunque senza soluzione di continuità la medesima attività, retribuita ed assicurata» da parte di un soggetto, il cessionario, che è «difficile considerare un “qualsiasi altro soggetto terzo”, un “qualsiasi altro datore di lavoro”, proprio per la relazione giuridica circolatoria», con la conseguenza che questi “nel momento in cui estingue una obbligazione propria impedisce, per l’identità tra prestazione effettivamente resa e prestazione offerta al cedente, il sorgere di una seconda obbligazione retributiva per una prestazione eseguita e non più possibile”.
La Cassazione, ribaltando quanto stabilito dal Tribunale e dalla Corte d’Appello, afferma poi che la previsione di cui all’art. 32, comma 4, lett. c) della l. 183/2010 – che prevede l’obbligo di un’impugnazione stragiudiziale entro 60 giorni che deve essere seguita da un ricorso giudiziale nei successivi 180 giorni – è relativa soltanto alle ipotesi in cui il lavoratore contesti la cessione del contratto o, meglio, il passaggio del rapporto di lavoro.
Secondo la sentenza, invece, restano estranee ai predetti termini decadenziali le ipotesi in cui il lavoratore voglia avvalersi del trasferimento di azienda (formalmente deliberato dal datore di lavoro cedente) – al fine di ottenere il riconoscimento del passaggio e della prosecuzione del rapporto di lavoro in capo al cessionario – oppure chieda di accertare l’avvenuto trasferimento di azienda che assuma realizzato in fatto.
Per i Giudici di legittimità, la predetta norma, portando ad una importante limitazione temporale per l’esercizio dell’azione giudiziaria, ha carattere eccezionale e non può che essere interpretata in maniera molto rigorosa, senza alcuna possibilità di applicazione analogica.
Ne conseguirebbe, quindi, in assenza di una disciplina specifica per la determinazione del danno nell’ipotesi in parola, l’applicazione dei normali criteri fissati per i contratti, e quindi la detrazione – quale aliunde perceptum, di quanto il lavoratore possa aver conseguito svolgendo una qualsivoglia attività lucrativa.
Il danno non potrebbe ritenersi sussistente nel caso in cui il lavoratore, proseguendo a lavorare alle dipendenze del cessionario, non venga allontanato dal posto di lavoro e continui a percepire la retribuzione.
Seguendo la medesima ratio, il diritto al risarcimento del danno non sussisterebbe qualora il lavoratore abbia accettato l’estinzione dell’unico rapporto di lavoro, di fatto proseguito con l’impresa cessionaria, sottoscrivendo insieme a quest’ultima un verbale di messa in mobilità.
Anche le ultime pronunce della giurisprudenza abbandonano la prospettiva dell’unicità del rapporto sottolineando che il trasferimento del medesimo rapporto si determina solo quando si perfeziona una fattispecie traslativa conforme al modello legale; diversamente, nel caso di invalidità della cessione per mancanza di requisiti dell’art. 2112 c.c. e di configurabilità di una cessione negoziale per mancanza del consenso della parte ceduta quale elemento costitutivo della cessione, quel rapporto non si trasferisce e resta nella titolarità dell’originario cedente.