I rapporti di lavoro, posti nello stato di sospensione a seguito della sentenza che dichiara aperta la liquidazione giudiziale, possono cessare per effetto dell’atto di recesso da parte del curatore (previa autorizzazione del giudice delegato e sentito il comitato dei creditori), recesso che il curatore può comunicare prima della scadenza del termine di quattro mesi dalla data della sentenza o dell’ulteriore termine assegnato dal giudice delegato in caso di proroga della sospensione.
Va, anzitutto, osservata l’eccezionalità della previsione di un atto di recesso che è comunicato da un soggetto, il curatore, che non è titolare dei rapporti di lavoro ai quali il recesso si riferisce, non essendovi subentrato. Così come eccezionale è la previsione in base alla quale, mentre il subentro decorre dalla comunicazione effettuata ai lavoratori, il recesso del curatore decorre dalla data di apertura della liquidazione giudiziale (art. 189, comma 2), e non dal momento in cui la comunicazione viene ricevuta dai lavoratori (come, invece, dovrebbe essere in base al principio generale dell’art. 1335 c.c.).
Maggiori problematiche interpretative ed applicative genera, invece, l’ipotesi in cui il curatore decida di recedere dal rapporto.
La previsione – che, come si ipotizzava, dovrebbe applicarsi solo quando non ricorrano le condizioni relative al licenziamento collettivo -, ha lo scopo di indurre il curatore a definire rapidamente le situazioni di chiara inutilità della prosecuzione del rapporto di lavoro evitando anche di far maturare il termine previsto, per la risoluzione di diritto, creando ai lavoratori un pregiudizio, visto che gli stessi restano per il periodo di sospensione senza reddito, nonostante non possano dimettersi se non con preavviso a loro carico.
Il curatore deve comunicare ovviamente per iscritto il suo recesso, che in questo caso la norma definisce anche “risoluzione”, utilizzando ancora una volta un termine diverso da quello di “scioglimento”, forse per far meglio comprendere che il recesso ha efficacia retroattiva alla data dell’apertura della liquidazione giudiziale, ma introducendo una nozione ulteriormente potenzialmente produttiva di discrasie, tenuto conto che di solito la risoluzione deriva solo (oltre che da clausole o condizioni risolutive da inadempimento), da impossibilità della prestazione o eccessiva onerosità.
Le disposizioni in materia di recesso hanno generato un dibattito molto consistente in dottrina e portato ad orientamenti divergenti ed eterogenei in relazione all’interpretazione della disciplina del recesso.
In uno sforzo di semplificazione si possono individuare tre orientamenti, pur nell’ambito di interpretazioni molto articolate.
Un primo orientamento ritiene che debba trovare applicazione la disciplina limitativa dei licenziamenti e, segnatamente, quanto al recesso del curatore dal singolo rapporto, quella del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo.
Un secondo orientamento opta, invece, per la tipizzazione di una nozione speciale di giustificato motivo, non riconducibile entro la fattispecie tradizionale del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Ad avviso di un terzo orientamento va infine privilegiata un’interpretazione propriamente “civilistica”, tale da prevedere – almeno apparentemente e stando al tenore letterale della norma – una nuova ipotesi di recesso ad nutum ai sensi dell’art. 2118, comma 1, c.c. (con ciò attribuendo al lavoratore solo il diritto all’indennità di preavviso) e una vera e propria eccezione al principio di giustificazione e motivazione del licenziamento.
Non meno problematica e controversa appare la disciplina della risoluzione di diritto (ex art. 189, comma 3, terzo periodo), secondo la quale «in ogni caso … decorso il termine di quattro mesi dalla data di apertura della liquidazione giudiziale senza che il curatore abbia comunicato il subentro, i rapporti di lavoro subordinato che non siano già cessati si intendono risolti di diritto con decorrenza dalla data di apertura della liquidazione giudiziale», salva la scelta del curatore di procedere al licenziamento collettivo o l’eventuale proroga del periodo di sospensione dei rapporti di lavoro.
Si pone in tal modo rimedio all’eventuale inerzia del curatore facendo scattare automaticamente la risoluzione a partire da un termine certo.
Allo stesso tempo si impone al curatore di definire il procedimento a prescindere dalla messa in mora da parte del lavoratore.
La risoluzione automatica o di diritto del rapporto segue la falsariga dell’attuale testo dell’art. 72 l. fall. per i casi di comportamento inerte del curatore, ma adattata alla speciale materia giuslavoristica in modo che non sia necessaria e nemmeno ammissibile, di conseguenza, in presenza di una regola sostitutiva, un’actio interrogatoria o messa in mora ad hoc, anche per evitare che debba farla ogni dipendente, facendo poi verosimilmente decorrere tanti termini diversi l’uno dall’altro.
Anche in tal caso viene utilizzato il termine “risoluzione”, ancora una volta collegato ad un’ipotesi extra ordinem (“di diritto”), tenuto conto che, di norma, la risoluzione in ambito giuslavoristico non assume tale carattere, probabilmente per rimarcare sempre la sua efficacia ex tunc.
Ad ogni modo, la risoluzione di diritto, benché non dipendente da un’espressa manifestazione di volontà del datore di lavoro/curatore, fa comunque sorgere il diritto del lavoratore all’indennità di mancato preavviso, come previsto dal comma 8.
Un regime particolare riguarda anche il caso delle dimissioni rese dal lavoratore.
Al riguardo, l’art. 189, comma 5, dispone che «Salvi i casi di ammissione ai trattamenti di cui al titolo I del decreto legislativo 14 settembre 2015 n. 148, ovvero di accesso alle prestazioni di cui al titolo II del medesimo decreto legislativo o ad altre prestazioni di sostegno al reddito, le eventuali dimissioni del lavoratore nel periodo di sospensione tra la data della sentenza dichiarativa fino alla data della comunicazione di cui al comma 1, si intendono rassegnate per giusta causa ai sensi dell’articolo 2119 del c.c. con effetto dalla data di apertura della liquidazione giudiziale».
Fatta eccezione per i casi in cui il lavoratore abbia accesso a prestazioni di sostegno al reddito, con particolare riguardo ai trattamenti di integrazione salariale di cui al Titolo I del d.lgs. n. 148/2015 ovvero ai fondi di solidarietà, di cui al Titolo II del medesimo decreto, costituiti da organizzazioni sindacali ed imprenditoriali nei settori che non rientrano nell’ambito di applicazione del Titolo I, la norma consente quindi al lavoratore di rassegnare le dimissioni per giusta causa durante il periodo di sospensione del rapporto lavorativo in pendenza della liquidazione giudiziale (e prima che sia intervenuta la comunicazione del curatore in ordine al subentro ovvero al recesso), ottenendo il pagamento dell’indennità di mancato preavviso e l’accesso al trattamento Naspi.
Come è ovvio, tuttavia, le dimissioni determineranno la cessazione del rapporto di lavoro, impedendo al lavoratore di giovarsi della tutela del posto di lavoro conseguente ad un eventuale trasferimento d’azienda o di ramo d’azienda.
Un intervento incisivo ad opera dell’art. 189, comma 6 e dell’art. 368, commi 1, 2 e 3 del d.lgs. n. 14/2019 ha riguardato anche la procedura di licenziamento collettivo ed il relativo sistema sanzionatorio, pure in questo caso prevedendo una disciplina speciale per la liquidazione giudiziale.
Peraltro, stando al tenore letterale del comma 6 dell’art. 189 (“Nel caso in cui intenda procedere a licenziamento collettivo …”), lo svolgimento della procedura di cui agli artt. 4 e 24 della l. n. 223/1991 (ovviamente in presenza dei relativi requisiti numerici, temporali e spaziali) pare non un obbligo, ma una mera facoltà lasciata al curatore in alternativa al recesso e alla risoluzione di diritto di cui ai commi 3 e 4 dell’art. 189, modalità di cessazione del rapporto di lavoro certamente molto più semplici dal punto di vista operativo e gestionale.
Tale soluzione interpretativa ha tuttavia ricevuto numerose critiche in ambito giuslavoristico ed è suscettibile di comportare alcuni profili problematici inerenti la possibile violazione della direttiva 98/59/CE in materia di licenziamenti collettivi, con particolare riferimento all’elusione dell’informazione e consultazione con i rappresentanti dei lavoratori.
In ogni caso, qualora il curatore decida di optare per il licenziamento collettivo, la procedura viene resa dalla specifica disciplina contenuta nell’art. 189 più semplice e rapida in caso di liquidazione giudiziale (v. l’art. 189, c. 6).
Ai sensi dell’art. 189, c. 8, d.lgs. n. 14/2019, «in caso di recesso del curatore, di licenziamento, dimissioni o risoluzione di diritto secondo le previsioni del presente articolo, spetta al lavoratore con rapporto a tempo indeterminato l’indennità di mancato preavviso che, ai fini dell’ammissione al passivo, è considerata, unitamente al trattamento di fine rapporto, come credito anteriore all’apertura della liquidazione giudiziale.
Parimenti, nei casi di cessazione dei rapporti secondo le previsioni del presente articolo, il contributo previsto dall’articolo 2, comma 31, della legge 28 giugno 2012, n. 92, che è dovuto anche in caso di risoluzione di diritto, è ammesso al passivo come credito anteriore all’apertura della liquidazione giudiziale».
Le tre ipotesi disciplinate dall’art. 189, comma 8 sono accomunate dalla loro ammissione al passivo quali crediti anteriori all’apertura della liquidazione giudiziale (non si tratta, quindi, di crediti prededucibili).
Con riferimento all’indennità di mancato preavviso, è stato sostanzialmente recepito l’orientamento giurisprudenziale – relativo all’applicazione dell’art. 72 l. fall. – secondo cui in caso di cessazione totale dell’attività aziendale scaturente dal fallimento, ove il curatore dichiari di sciogliersi dal rapporto, il lavoratore ha comunque diritto al preavviso lavorato o, in mancanza, all’indennità sostitutiva ex art. 2118 c.c., per non aver il datore di lavoro adempiuto al corrispondente obbligo di preavviso e tale indennità ha natura meramente concorsuale.
Ove, invece, il curatore opti per il subentro nel rapporto di lavoro o per l’esercizio dell’impresa del debitore e successivamente il rapporto cessi per una causa che determina il diritto del lavoratore all’indennità sostitutiva del preavviso, tale indennità sarà riconosciuta in prededuzione.
Quanto al trattamento di fine rapporto, la soluzione accolta dal legislatore delegato conferma che il credito per Tfr – salvo il caso di subentro del curatore nel rapporto di lavoro e/o di esercizio dell’impresa del debitore da parte del curatore – ha natura concorsuale.
Infine, viene considerato credito anteriore all’apertura della liquidazione giudiziale anche il contributo di licenziamento – introdotto con l’art. 2, c. 31, l. n. 92/2012 – diretto al finanziamento della Naspi, da versarsi in tutti i casi di interruzione di rapporto di lavoro a tempo indeterminato per cause diverse dalle dimissioni, dalle risoluzioni consensuali e dal decesso del lavoratore. Ai sensi dell’art. 189, comma 8, secondo periodo, il “contributo Naspi” sarà dovuto «parimenti nei casi di cessazione dei rapporti secondo le previsioni del presente articolo … anche in caso di risoluzione di diritto»: si deve intendere che, nel caso della liquidazione giudiziale, tale contributo dovrà essere versato in caso di recesso del curatore, di licenziamento, dimissioni per giusta causa o risoluzione di diritto.
Uno specifico regime trova applicazione nell’ipotesi in cui il curatore sia autorizzato ai sensi dell’art. 211 CCII all’esercizio dell’impresa del debitore in liquidazione giudiziale: in tal caso i rapporti di lavoro subordinato in essere proseguono, salvo che il curatore non intenda sospenderli o procedere al licenziamento ai sensi della disciplina lavoristica vigente.
Analoga conclusione è possibile sostenere con riferimento ai rapporti di lavoro c.d. “etero-organizzato” cui si applica – ai sensi dell’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015 – la disciplina del lavoro subordinato.
La prosecuzione dei rapporti di lavoro determinerà a carico della liquidazione giudiziale il sorgere di obbligazioni retributive e contributive mensili da soddisfare in prededuzione, così come quelle relative all’indennità sostitutiva del preavviso (una volta intervenuto l’eventuale licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo o soggettivo, ovvero il licenziamento collettivo, ovvero ancora le dimissioni per giusta causa del lavoratore), alle quote di Tfr maturate dalla data di apertura della procedura (mentre le quote maturate presso l’imprenditore in bonis hanno natura concorsuale), come pure al c.d. “contributo di licenziamento” previsto dall’art. 2, c. 31 della l. n. 92/2012.
L’art. 190 (« Trattamento Naspi ») del CCII – attuativo dell’art. 7, comma 7 della l. n. 155/2017 nella parte in cui prevede il coordinamento tra la disciplina degli effetti della liquidazione giudiziale sui rapporti di lavoro subordinato e le forme assicurative e di integrazione salariale – stabilisce che «la cessazione del rapporto di lavoro ai sensi dell’articolo 189 costituisce perdita involontaria dell’occupazione ai fini di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22 e al lavoratore è riconosciuto il trattamento Naspi a condizione che ricorrano i requisiti di cui al predetto articolo, nel rispetto delle altre disposizioni di cui al decreto legislativo n. 22 del 2015».
In sintesi, tale disposizione regola per i lavoratori subordinati dell’impresa in liquidazione giudiziale un regime di accesso alla Naspi sostanzialmente ordinario ai sensi del d.lgs. n. 22/2015, che opera quindi solo in presenza dei relativi requisiti e in caso di cessazione del rapporto di lavoro. La norma appare sostanzialmente pleonastica: deve, al riguardo, essere rilevato che tale previsione è mutata in modo pressoché integrale nel suo contenuto rispetto alla formulazione inclusa nello schema di decreto legislativo approvato dal Consiglio dei Ministri l’8 novembre 2018, che all’art. 190 contemplava fondamentalmente l’anticipazione del trattamento Naspi durante la fase di sospensione dei rapporti di lavoro nell’ambito della liquidazione giudiziale.
Nello specifico, si prevedeva che al lavoratore fosse corrisposto – sussistendo i requisiti previsti dall’art. 3, comma 1, lett. b) e c) del d.lgs. n. 22/2015 – a partire dalla data di apertura della liquidazione giudiziale, un trattamento equivalente a quello di Naspi, denominato Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego nella Liquidazione Giudiziale-NaspiLG.
Peraltro, onde evitare aggravi di spesa, si prevedeva che la sommatoria del trattamento NaspiLG e del trattamento Naspi per il tempo successivo all’eventuale cessazione del rapporto non potesse superare la durata massima prevista dal d.lgs. n. 22/2015. In sostanza, il punto di equilibrio tra gli interessi dei creditori e quelli dei lavoratori si realizzava in tale schema attraverso lo scambio tra una maggiore flessibilità per la liquidazione giudiziale nelle regole relative alla cessazione dei rapporti di lavoro ed un immediato riconoscimento ai lavoratori di un sostegno al reddito attraverso la corresponsione della NaspiLG.
Un tale bilanciamento era, del resto, funzionale ad agevolare (soprattutto in termini pratici) il curatore nella ricerca, con maggiore tranquillità e senza la pressione sindacale e dei lavoratori, di soluzioni idonee a garantire la continuità aziendale a più riprese auspicata dalla riforma.
La NaspiLG è, tuttavia, venuta meno in sede di approvazione definitiva del CCII e si è ritenuto preferibile tutelare il reddito dei lavoratori non già prevedendo la sostanziale anticipazione del trattamento Naspi durante la sospensione ex lege del rapporto (ciò che sarebbe avvenuto attraverso la NaspiLG ed avrebbe inoltre permesso ai lavoratori di giovarsi, per esempio, della eventuale tutela del posto di lavoro a seguito di un trasferimento d’azienda o di ramo d’azienda), ma consentendo le dimissioni per giusta causa (con relativo diritto al trattamento Naspi) sin dal momento di apertura della liquidazione giudiziale, a fronte tuttavia della ovvia cessazione del rapporto di lavoro.